Il termine autostima viene spesso usato nel linguaggio comune come sinonimo di “fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità”. Questa definizione popolare, in realtà, ne rispecchia solo in parte il concetto, il quale è ben più complesso e sfaccettato.
L’autostima corrisponde al valore, positivo o negativo, che un individuo dà a sé stesso. In altre parole, possiamo definirla come una valutazione che la persona attribuisce sul proprio conto e trova fondamento nella concezione che noi abbiamo di noi stessi. Anche in questo caso si tende a fare molta confusione tra immagine di sé e autostima: la prima fa riferimento alla nostra rappresentazione mentale data da idee, impressioni, descrizioni, informazioni, pensieri, conoscenze; la seconda fa riferimento al giudizio soggettivo che auto assegniamo alle nostre caratteristiche.
L’immagine di sé viene costruita sulla base di idee personali sul nostro conto, ma anche poggiandosi sulle opinioni che altri hanno di noi. In particolare, i bambini utilizzano molto i criteri esterni per imparare qualcosa su loro stessi, proprio perché non hanno un passato e un bagaglio di esperienze pregresse da cui trarre informazioni sulla loro persona. Esattamente come per il concetto di sé, anche l’autostima è ricavata dai riscontri avuti dalle persone significative che li circondano.
Nei primi anni di vita troviamo i genitori e i familiari più stretti, i quali hanno il compito di supportare il bambino nel suo sviluppo, dimostrandogli amore e approvazione. I comportamenti sbagliati del bambino devono essere sottolineati, focalizzandosi sulle azioni stesse e non dispensando giudizi di valore sulla persona (es. “ciò che hai fatto è sbagliato”, non “sei un disastro”). Così facendo, il familiare sosterrà il bambino nei suoi primi tentativi di padronanza, portandolo a interiorizzare un suo sistema di fiducia e autogratificazione capace di portarlo a cercare sempre meno l’approvazione esterna dell’adulto e ad auto-rinforzarsi. Tutto questo promuove la costruzione di un’immagine e di un valore di sé positivi.
La valutazione della persona, senza porre l’attenzione sulle sue azioni, invece, potrebbe determinare la cosiddetta “profezia che si autoavvera”, anche conosciuta come effetto Pigmalione. Si riferisce al fenomeno per il quale una previsione o convinzione finisce per influenzare il comportamento di una persona a tal punto da farla diventare realtà. Il bambino, che si sente continuamente dire di essere un disastro, potrebbe interiorizzare questa immagine di sé, con conseguenze sull’autostima e influenzando i suoi comportamenti in quella direzione.
Inoltre, crescendo e facendo ingresso a scuola, i bambini dovranno scontrarsi con una realtà nuova, in cui troveranno nuove figure di riferimento (gli insegnanti) e nuove figure di confronto (i coetanei). Il contesto scolastico, infatti, è molto incentrato sui risultati e l’elemento cardine di valutazione è il voto. L’importanza di cui è stato caricato lo ha trasformato in un’arma terribile dal momento che può indurre il bambino a identificarsi in esso. È proprio compito delle figure educative evitare questa trasposizione del valore personale nel voto, contrastando la formazione di un divario tra sé percepito (come ci si vede) e sé ideale (come ci si aspetta di essere). Il bambino, non avendo comprensione del fenomeno e non essendo stato educato al sistema dei voti, potrebbe consolidare una distorsione cognitiva della sua immagine personale, inducendolo a pensare di essere sbagliato, di non essere all’altezza delle sue aspettative o di essere mancante di qualcosa (es. “prendo sempre 3, quindi valgo 3”).
Questo passaggio dipende molto dal cosiddetto locus of control (LoC), un costrutto studiato per la prima volta da J.B. Rotter nel 1954, che si riferisce alla nostra personale tendenza ad attribuire le causa di eventi o esiti. Coloro che possiedono un locus of control interno tendono ad attribuire la causa degli eventi ai propri comportamenti, mentre coloro che hanno un locus of control esterno sono più portati ad attribuire la causa degli eventi a fattori ambientali o forze esterne. Generalmente le persone sviluppano uno stile di attribuzione misto, che oscilla da un’estremità all’altra a seconda delle situazioni. C’è da sottolineare, però, che il locus of control non è innato e viene appreso nella relazione con le persone significative che ci circondano. Famiglie che pongono attenzione agli sforzi e agli obiettivi raggiunti grazie all’impegno, insegneranno al bambino che molte cose dipendono da lui stesso, portandolo a sviluppare un LoC prevalentemente interno.
Famiglie che non danno troppa importanza all’assunzione di responsabilità e a fattori interni, insegneranno al bambino che gli eventi non sono controllabili tramite i suoi comportamenti, portandolo a sviluppare un LoC prevalentemente esterno.
Va da sé che diversi stili di attribuzione avranno diverse ripercussioni sul concetto di sé e sull’autostima. Infatti, questi ultimi sono molto influenzati dalla credenza di poter raggiungere un esito desiderato o dalla consapevolezza di poter rimediare a un insuccesso. Effetti negativi si hanno quando lo stile di attribuzione è molto rigido sia verso l’interno sia verso l’esterno. Nel caso di LoC interno si potrebbero sviluppare grandi sensi di colpa in caso di fallimento e forte ansia da prestazione, nel caso di LoC esterno si potrebbero maturare un senso di deresponsabilizzazione, bassa autostima e autoefficacia, fino a sfociare nella depressione.
In genere, quindi, la bassa autostima sembrerebbe collegata principalmente a rigidi stili di attribuzione esterni, i quali farebbero pensare al bambino che i suoi sforzi siano inutili e non potrà mai far nulla per cambiare la sua situazione (es. “se io valgo 3, non potrò mai arrivare più in alto di così, anche se mi sforzo”).
Lo scenario peggiore è che la valutazione negativa di sé in ambito scolastico possa iniziare anche a generalizzarsi in altri contesti extra-scolastici, portando il bambino a pensare di essere un buono a nulla in ogni circostanza e attivando un atteggiamento rinunciatario verso ogni attività. Questo vissuto è stato studiato per la prima volta da M. Seligman nel 1967 e venne denominato learned helplessness (impotenza appresa). Si riferisce a uno stato mentale, appreso dopo prolungate esposizioni ad eventi avversi, che porta la persona a immobilizzarsi e a subire passivamente ogni circostanza con la convinzione di non avere gli strumenti per affrontarla. Quando si entra in questo meccanismo mentale, il divario tra sé percepito e sé ideale è molto ampio con conseguenze deleterie sull’autostima e sull’autoefficacia.
L’autostima nei DSA e nell’ADHD
In ottica di quanto precedentemente appreso, è chiaro come i DSA possano impattare in modo rilevante sull’autostima delle persone che convivono con questa condizione. Le loro difficoltà legate ai requisiti di apprendimento (lettura, scrittura o calcolo) li costringono ad affrontare spesso:
– esperienze di insuccesso in ambito scolastico;
– critiche da parte di insegnanti e familiari che non comprendono la sua situazione, rimandandogli un’immagine di sé negativa (“si impegna poco”, “è duro di comprendonio” ecc.);
– grandi sforzi per lavorare sulle sue difficoltà e affrontare i compiti, lasciando poco tempo alle attività in cui si sentono capaci e competenti.
Il bambino rischia di convincersi che non potrà mai fare nulla per cambiare la sua situazione, maturando un locus of control esterno estremamente rigido. Partendo già demotivato, non reagirà in modo efficace e si avvicinerà inevitabilmente all’ennesimo insuccesso, che verrà interpretato come una conferma della propria inadeguatezza, alimentando questo circolo vizioso.
L’ADHD, sebbene parta da presupposti diversi, può avere gli stessi risvolti negativi dei DSA. Le fragilità dei bambini con ADHD sono riscontrabili a livello di attenzione, impulsività e iperattività. Proprio per i loro comportamenti poco desiderabili, le loro scarse abilità di autoregolazione e autocontrollo, i bambini con ADHD:
– ricevono numerose punizioni e rimproveri in ambito scolastico ed extra-scolastico – vengono esclusi dai pari perché possono risultare fastidiosi e invadenti -;
– devono sforzarsi molto per portare a termine compiti e attività, lasciando poco tempo per le attività di svago.
Tutto ciò influisce in modo negativo sulla loro immagine di sé e, quindi, sulla loro autostima. Anche in questo caso possono maturare un locus of control esterno capace di convincerli che tutto ciò che fanno sarà sempre sbagliato nonostante il loro impegno, aumentando il senso di frustrazione, l’aggressività e il senso di inadeguatezza.
Come supportare l’autostima nei DSA e nell’ADHD
Esistono alcuni elementi fondamentali da tenere in considerazione per sostenere al meglio il bambino con DSA o ADHD:
– educazione sul loro funzionamento: informali delle loro difficoltà, in modo tale che comprendano cosa significhi avere un DSA o l’ADHD e cosa comportano queste condizioni. Conoscerne le caratteristiche, infatti, li può aiutare a trovare delle strategie efficaci per gestirle, ad accettare i propri errori e a sentirsi più competenti;
– dare valore alla persona, al di là delle prestazioni: il voto non determina il valore del bambino, né tanto meno i suoi comportamenti. Bisogna mostrare gli insuccessi come occasioni di apprendimento per disporre la persona a continuare a mettersi in gioco;
– riconoscere i punti di forza: è bene riconoscere le sue capacità e valorizzare le competenze del bambino con i fatti, dandogli delle responsabilità appropriate al suo sviluppo. Questo permetterà di sperimentare la propria padronanza e sentirsi all’altezza delle situazioni;
– apprezzare i miglioramenti: riconoscere i progressi, anche minimi, ed enfatizzarli. In tal senso, sarebbe opportuno prestare attenzione soprattutto al processo, più che all’esito finale. Per fare ciò, è necessario insegnare al bambino a frammentare l’attività in tanti piccoli obiettivi. Ogni traguardo raggiunto aiuta ad alimentare l’autostima.