Le neurodiversità come i DSA e l’ADHD sono condizioni piuttosto sfidanti nella quotidianità, che hanno bisogno di un buon grado di comprensione ed empatia da parte di familiari ed insegnanti. Sebbene si tratti di quadri sintomatologici diversi, spesso è possibile trovarli associati (comorbilità) e questo rende ancora più difficile la gestione di questi alunni.
È di fondamentale importanza capire che questi disturbi non sono il risultato di fattori ambientali, quali maleducazione, scarsa disciplina o mancanza di supporto familiare. Si tratta, invece, di particolari tipologie di funzionamento neurologico che richiedono approcci didattici, educativi e formativi differenti da quelli tradizionali.
L’accoglienza della diversità come fenomeno intrinseco della vita
Il riconoscimento e l’accoglienza di tutte le diversità emerge, innanzitutto, dall’informazione. È risaputo che la nostra mente funziona per categorie, ossia raggruppa ciò che percepisce simile in modo da organizzarlo. Si tratta di una tendenza naturale che ci porta ad accomunare tutto ciò che è affine per semplificare il più possibile la realtà. Ogni volta che conosciamo qualcuno, ad esempio, siamo inclini a classificarne le caratteristiche: uomo/ donna, giovane/anziano, connazionale/straniero ecc.
Questo tipo di categorizzazione è basata sull’esperienza diretta, ma può essere fondata anche su stereotipi, ossia immagini semplificate di gruppi sociali (es. gli svizzeri sono tutti puntuali) che spesso deriva dalla cultura d’appartenenza. Queste rappresentazioni possono sfociare in pregiudizi, ossia opinioni o valutazioni anticipate e preconfezionate (spesso negative) su qualcuno appartenente ad un gruppo ancor prima di conoscerlo.
Queste tendenze ci permettono di risparmiare energie cognitive e risorse mentali che dovrebbero, invece, essere attivate in caso di valutazioni più approfondite dei singoli individui.
A queste importanti dinamiche psicologiche dell’essere umano, c’è da aggiungere la costante ricerca di un’immagine positiva di noi (autostima). Quest’ultima è fortemente influenzata dal valore del gruppo sociale a cui apparteniamo, ossia l’insieme delle persone con caratteristiche simili alle nostre a cui veniamo assimilati (es. lo stereotipo “gli italiani sono affascinanti” migliora l’immagine che una persona italiana ha di sé). Pertanto, siamo più motivati a valorizzare e mettere in evidenza le caratteristiche positive del nostro gruppo per aumentare la nostra autostima, differenziandoci da altri gruppi sociali (distintività positiva).
Prendiamo ora in considerazione due categorie che, purtroppo, vengono spesso delineate come opposte a causa di un retaggio scientifico: normalità e diversità. Normalità, ad oggi, indica ciò che è comune, consueto, regolare poiché associato al concetto statistico di “distribuzione normale”. Normale, in statistica, è ciò che si manifesta con più probabilità o frequenza. Si basa sul principio di maggioranza, creando un gruppo prevalente di dati, che gravita intorno al valore medio, e un gruppo minoritario, che devia molto dalla media per eccesso o per difetto.
Inizialmente l’utilizzo di questa funzione statistica era utilizzato per quelle misurazioni con ampio margine d’errore (es. astronomia). Affinché questo potesse essere corretto, si effettuavano molte misurazioni di un fattore e si determinava la media, ossia il valore che si avvicinava con maggior probabilità alla misura reale. Più tardi, nell’Ottocento, iniziò un periodo di esaltazione della scienza che portò nei secoli ad un fanatico utilizzo del metodo scientifico e della statistica in ogni ambito umano, anche quello psicologico e sociale. Questo, da una parte, permise alla psicologia di diventare una scienza, garantendo l’obiettività, il controllo e la replicabilità dei suoi risultati, dall’altra, portò a confermare alcuni stereotipi e a tramandare alcune false credenze.
L’idea di “distribuzione di errori” si estese, quindi, anche alle misure delle caratteristiche fisiche (es. altezza, massa corporea ecc.), dei comportamenti (es. sessualità, alimentazione ecc.) o delle facoltà cognitive e mentali (es. intelligenza, abilità matematiche, abilità di lettura ecc.). Questo portò inevitabilmente a:
- considerare il valore medio come ideale di perfezione umana;
- dettare degli intervalli di “normalità”, al cui interno si trovava la maggioranza della popolazione; • giudicare diverso (difettoso in caso di carenza o mostruoso in caso di eccesso) tutto ciò che si trova fuori da questi confini.
Siccome la validazione scientifica era considerata l’unica via per avere una conferma di veridicità (“è vero perché l’ha detto la scienza”), si arrivò ad accostare la diversità all’anormalità e alla patologia e a vederla come un fenomeno negativo da escludere e marginalizzare.
Ad oggi sappiamo che la scienza ci offre solo risposte esatte, ma non necessariamente vere: tutto dipende dalle premesse che la guidano, se queste a posteriori decadono, anche le conclusioni si falsificheranno. Ad esempio, per lungo tempo, i canoni di normalità sono stati definiti su campioni di popolazione che non rappresentavano l’intera popolazione mondiale con le sue differenze. I parametri di rifermento rispetto alla normalità erano, quindi, distorti.
Sebbene siano stati fatti alcuni passi in avanti nella società odierna, ancora lungo è il cammino verso un’idea di diversità come normale espressione della varietà della natura. Si tratterebbe, quindi, di liberare il concetto di normalità dai suoi limiti scientifici ed includerne la diversità, riconoscendola come sua ricchezza.
I primi passi verso un adeguato supporto: la comprensione
Gli stereotipi e i pregiudizi sui DSA e gli ADHD sono numerosi, anche legati al fatto che troppo spesso vengono identificati come malattie da curare, seguendo una narrativa tipica del modello biomedico. Questa prospettiva riduceva la complessità umana a fenomeni puramente biologici e chimici regolari o alterati. Partendo dall’usanza di ragionare per categorie opposte (dualismo), tutto è suddivisibile in modo binario: normale o diverso, sanità o patologia. Se la normalità prevedeva che l’apprendimento avvenisse con un determinato approccio didattico, chi non riusciva ad apprendere con esso era difettoso.
Ad oggi, questa prospettiva è superata a favore di un modello bio-psico-sociale che mira alla prevenzione della discriminazione delle persone e alla valorizzazione delle differenze. Questa prospettiva ammette la complessità umana adottando una visione globale per la comprensione di ogni individuo (aspetti biologici, psicologici e sociali). La grande rivoluzione sta nell’aver spostato l’attenzione dal sintomo (salute come assenza di malattia) all’esperienza della persona (salute come stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale percepito dall’individuo). Tuttavia, il riconoscimento della variabilità del funzionamento umano è una concezione piuttosto moderna e ancora non del tutto stabilizzata all’interno della nostra società.
I DSA e l’ADHD sono delle neurodiversità, ossia delle condizioni neurologiche alternative. L’informazione, la presa di coscienza del superamento del modello biomedico, l’apertura verso nuove prospettive frutto dell’evoluzione della società, la conoscenza delle loro manifestazioni sono il primo passo per capire che non si tratta di patologie o sviluppi neurologici anomali, ma piuttosto di una normale variazione neurologica del cervello umano. Possiamo paragonarla alla comune variabilità del colore dei capelli o del colore degli occhi.
Questa nuova consapevolezza sarà proprio la base per attivare una serie di competenze finalizzate a riconoscerne le caratteristiche e per supportare gli individui attraverso interventi mirati.
Coltivare l’empatia verso bambini con DSA e ADHD
Per empatia si intende la capacità di porsi nei panni dell’altro, partecipare alla sua condizione sentendo ciò che lui sta vivendo. Si tratta di una possibile evoluzione della comprensione, che tiene conto anche della componente psico-emotiva. Calarsi nella realtà dell’altro e riconoscerne le difficoltà, la frustrazione, lo sconforto e gli sforzi è un altro passo importante. Da parte degli insegnanti e della scuola, questo potrebbe tradursi nell’adozione di provvedimenti adatti allo studente: redazione di PDP, accettazione dell’uso di strumenti compensativi o misure dispensative, differenti forme di valutazione, metodi di studio alternativi ecc.
In famiglia, invece, significherebbe creare un ambiente accogliente, non svalutativo e non giudicante in cui il bambino possa essere accettato e possa esprimersi liberamente. Inoltre, aiuterebbe nella creazione di una rete collaborativa ed aperta ad una condivisione continua di informazioni circa lo sviluppo del bambino.
Solo così, l’insegnante e il caregiver saranno in grado di porgere la mano e accompagnare l’alunno verso i suoi obiettivi di apprendimento e di vita senza minare la sua autostima e la sua autoefficacia.
La comprensione e l’empatia, quindi, sono due concetti complementari che, però, non hanno un significato limitato ai singoli casi. Si tratta di atteggiamenti che devono essere tramandati, non per scelta morale, ma per dare un futuro migliore alla nostra società. Proprio perché la natura è ricca di biodiversità ed è quest’ultima a determinare un equilibrio essenziale alla vita sulla Terra, è bene valorizzarla. La nostra sopravvivenza passa proprio dall’accogliere ed accettare le differenze naturali di cui la neurodiversità fa parte.